“Non ce la posso fare”, “I figli mi uccideranno”, "Che vita d'inferno". Molte volte i genitori si sfogano esprimendo frasi come queste, ma che fanno comunque parte del rapporto genitori-figli.
Del resto, in questa relazione convivono reazioni più o meno aggressive nei confronti dei figli in momenti in cui ci si sente talmente presi da sentirsi divorati, esasperati, arrabbiati, impotenti, parallelamente a sentimenti di amore, tenerezza, sostegno, condivisione piacere, orgoglio e gioia.
Il sentirsi eccessivamente presi, in particolare, è assolutamente normale in alcuni momenti e in altri no, nonostante le richieste del bambino siano identiche.
Questo dipende dal proprio stato d'animo, dalle soddisfazioni avute durante la giornata, dalla vita affettiva con il proprio partner: quando un genitore si sente solo, infelice, insoddisfatto, anche la più piccola richiesta da parte del figlio diventa opprimente.
Sono moltissimi i genitori che non ce la fanno neanche in situazioni di quotidianità quali vestirsi, lavarsi, mangiare o andare a letto, si sfiniscono di fatica per farsi obbedire dai figli scontrandosi o tentando di convincerli con le buone maniere.
In queste occasioni si fa fatica a riconoscere i propri sentimenti caotici e ambivalenti e, mentre l'ambivalenza dei figli nei confronti dei genitori è ormai riconosciuta e accettata, si fa ancora fatica ad ammettere quella dei genitori nei confronti dei figli; l'idea di addebitare ad una madre sentimenti aggressivi nei loro confronti è molto difficile da accettare, tanto siamo impregnati dal mito della purezza dell'animo materno, e alcuni sentimenti non possono essere confessati senza il rischio di sembrare un mostro o una persona anormale. Del resto, anche nelle favole sono le matrigne a proteggere le madri dalla loro ambivalenza: non sono mai loro le cattive!
L'ambivalenza si esprime tutte le volte che un genitore parla delle proprie abitudini cambiate da quando è nato il figlio, e delle cose a cui ha dovuto rinunciare, tuttavia non riesce a fare a meno di lasciarsi coinvolgere dal piccolo anche in modo eccessivo, impedendosi così di riacquistare quella dimensione adulta che lo renderebbe meno frustrato.
Secondo questi genitori il bambino invade lo spazio adulto per tutta una serie di motivi: per il suo pianto continuo, perché è spesso malato, perché non sa giocare da solo o non sa giocare con i fratelli senza litigare, perché non dorme o perché si intromette nelle discussioni tra adulti e, infine, rovina persino le vacanze.
Così, giunti all'esasperazione, finiscono per cedere alle richieste dei figli spinti da varie motivazioni:
Per EVITARE CONFLITTI indesiderati. Il poco tempo che a volte passiamo con i nostri figli non vogliamo impiegarlo in litigi e conflitti, Inoltre, la nostra società ci culla nel mito dell'armonia familiare, veicolando l'idea che il conflitto è negativo.
Perché SI TEME LA PROPRIA VIOLENZA e molti genitori temono di non riuscire a gestire la propria aggressività e allora, per evitare il confronto con ciò di cui hanno paura rinunciano ad imporsi.
Per NON PERDERE TEMPO spesso si rinuncia a chiedere al bambino di fare qualcosa e lo si fa al posto suo, eppure, perdere qualche minuto oggi significa guadagnare tempo per sé in futuro e far guadagnare sicurezza al proprio bambino: se facciamo al posto suo ciò che lui è in grado di fare, non contribuiamo affatto a rafforzare la sua autostima; al contrario, agiamo come se non fosse capace di fare le cose da solo.
Perché SI DUBITA DI SE STESSI E DELLE PROPRIE RAGIONI e allora si rinuncia a priori alla minima contestazione da parte del figlio, indebolendo così la propria azione educativa.
Perché CI SI SENTE IN COLPA, per mille motivi, che i nostri figli astutamente scoprono presto e utilizzano a proprio vantaggio.
Perché SI E' STANCHI e la stanchezza è di difficile comprensione per un bambino, che, di fronte ad un adulto così, si immobilizza, oppure al contrario, si agita e aumenta le proprie pretese, non riesce a mettersi nei panni del genitore e quindi risulta insopportabile.
Perché CI SI ILLUDE DI ESSERE AMICI, ma così facendo si aboliscono le differenze e si nega l'importanza delle generazioni e dell'autorità genitoriale nell'illusione di evitare conflitti.
Oppure si reagisce in altri modi:
LASCIAR FARE, POI REAGIRE VIOLENTEMENTE, in questo caso il genitore sopporta apparentemente tollerante una situazione fino a che non la sente più sopportabile e allora reagisce violentemente e a volte inspiegabilmente per il bambino che non comprende una reazione così violenta. Il divieto non viene posto in rispetto ad un valore, a un principio morale dell'adulto, bensì in base al suo stato di saturazione.
NEGOZIARE, in questi casi il bambino ha imparato a condividere il potere con i suoi genitori e mercanteggia e contesta continuamente mentre i genitori devono continuamente giustificarsi e spiegare le proprie ragioni. In queste situazioni, il bambino non sta al suo posto, è un partner dell'adulto, su un piano di parità; né per lui è molto rassicurante sentire di avere un potere che in realtà non ha, poter mettere in discussione la sensatezza delle richieste dei genitori. Ma, contrariamente a ciò che pensano alcuni genitori, ci sono cose che non vanno messe in discussione. Certo, si devono spiegare alcuni eventi familiari, discutere con i figli alcune scelte o possibilità, chiarire i motivi di un particolare obbligo; ma, nella quotidianità, ci sono azioni inevitabili che non si prestano a contestazioni e che è giusto imporre.
URLARE, è vero che urlare contro i propri figli è esperienza comune a molti genitori. Ma spesso ciò accade perché riponiamo nei nostri figli tantissime speranze e soddisfazioni, così da lusingare il nostro narcisismo e restituirci un'immagine di genitori sufficientemente buoni.
FAR TACERE attraverso, ad esempio: (1) tv, videogiochi o computer. Pur essendo noi a comprare queste apparecchiature, poi pretendiamo che i bambini ne sappiano gestire l'utilizzo; e, mentre siamo noi a spingerli a utilizzarli quando ci fa comodo, vorremmo anche che smettessero quando ci sembra che non facciano altro. (2) Il ciuccio: Il ciuccio-tappo viene dato al neonato non appena comincia a lamentarsi o a strillare; è una risposta facile e rapida data dall'adulto ma ciò implica una serie di riflessioni: innanzitutto il ciuccio impedisce al bambino di comunicare i suoi bisogni e blocca il messaggio che vuole inviare; poi lo priva della possibilità di trovare da solo gli strumenti per calmarsi, non lo fa agire attivamente con il rischio di fargli adottare in seguito lo stesso atteggiamento passivo di fronte ad altre difficoltà. Infine, l'uso del ciuccio denota nell'adulto una mancanza di fiducia nelle proprie possibilità di consolare il figlio con altri mezzi.
TACERE, ignorare anche verbalmente il bambino che si sente per questo trascurato e abbandonato, punendolo non fisicamente ma sul piano psichico con la violenza del proprio mutismo.
RINCHIUDERE il bambino, anche solo momentaneamente, in una stanza o comunque fuori dal resto del nucleo familiare, è un contenimento e una chiusura in tutti i sensi, e per un bambino piccolo può essere molto angosciante. Ciò non fa altro che aumentare la sua rabbia portandolo a reazioni di disperazione e panico.
COLPEVOLIZZARE: (1) il proprio figlio, con affermazioni del tipo "“Mi farai morire...”"; "“Mi stai uccidendo!"”; "“Mi farai ammalare!”". Il bambino prende alla lettera ciò che gli viene detto e si sente realmente responsabile di ciò che può accaderci di brutto. "“Sii buono, sono stanco!”": in questo caso si chiede al bambino di non fare alcuna richiesta per non aumentare la stanchezza del genitore e per non rischiare di farlo ammalare, è un ricatto affettivo che pone il bambino nella condizione di rinunciare ai propri desideri e di avere un potere immenso nei riguardi della salute dell'adulto. (2) Se stessi, con i motivi più diversi che non ci fanno sentire dei genitori sufficientemente adeguati, e allora si reagisce cercando di rimediare con regali che a volte anticipano i desideri dei figli.
MINACCIARE di andarsene, di abbandonarli, di dover andare in ospedale, e questo è preso dai bambini alla lettera, questi ricatti affettivi sembrano molto efficaci perché il bambino smette subito di infastidire il genitore; ma possono anche risultare angoscianti al punto che, preso dal panico, il piccolo si aggrappa ancora di più al genitore per assicurarsi che non lo abbandoni.
FARE CONFRONTI con altri bambini, tra i fratelli o con se stessi da piccoli.
DELEGARE, ovvero lasciare ad altri la cura del o dei propri figli, compreso il fatto di affidare i fratelli più piccoli a quelli più grandi. Nel caso in cui i genitori lavorino entrambi, l'educazione dei figli è delegata per molte ore alla scuola o a baby-sitter, ma questo è un problema che andrebbe affrontato anche a livello politico e sociale, per dar modo alle famiglie di trascorrere più ore insieme.
RESPONSABILIZZARE TROPPO PRESTO; chiediamo al bambino di scegliere quando è ancora troppo piccolo, cose del tipo, cosa indossare, se prendere o meno le medicine, se andare a dormire oppure no... Se si ammala, prende freddo, se è stanco si attribuisce a lui la responsabilità. Alla sua età deve già farsi carico delle conseguenze delle sue decisioni, solo perché i genitori non vogliono imporre le proprie scelte.
INSULTARE, UMILIARE, con la violenza delle parole si segna per tutta la vita e bisognerebbe distinguere bene nel rimproverare i figli, tra il giudizio per una azione compiuta e il giudizio del bambino che l'ha compiuta: diverso è dire "“Sei molto cattivo”" da “"Quello che hai fatto è molto cattivo"”, perché non imprigiona il bambino nell'etichetta di “cattivo” e gli dà la possibilità di riscattarsi con le azioni successive.
PICCHIARE, MALTRATTARE, spesso la violenza fisica è la soluzione ultima per un adulto che non riesce a ottenere ciò che vuole dal figlio o che non vuole o non può rispondere alle sue richieste. Il passaggio all'azione violenta dà un sollievo solo all'adulto, ma cosa resta nel bambino? La violenza crea le basi della violenza a lungo termine.
Per uscire da questa situazione occorre riconoscere i propri sentimenti anche quando sono considerati negativi ed accettarli, ed accettare inoltre di riaprire le pagine della propria infanzia. Nell'educazione di un figlio, infatti, ci si lascia soprattutto invadere da tutto ciò che è rimasto irrisolto riguardo a se stessi e si rischia di proiettare su di lui caratteristiche che non lo riguardano affatto.
Essere un bravo genitore significa non temere di dire “no”, significa dare senza perdersi, fornire il giusto contenimento ai desideri dei bambini in un clima d'amore e di rispetto.
Un bambino al quale vengano posti con fermezza dei limiti, senza essere aggredito, ne sarà rassicurato. Limiti che siano sempre gli stessi e non cambino a seconda del nostro stato d'animo.
Potrà essere utile allora prendersi il giusto tempo per non arrivare al limite della tensione, trascorrendo anche solo un quarto d'ora insieme alla fine della giornata di scuola e di lavoro. I figli saranno più tranquilli, soddisfatti e maggiormente disposti, in seguito, a lasciare un po' di spazio per soli adulti.
Oppure approfittare dei momenti “obbligati” in cui ci si sposta insieme da una attività all'altra per uno scambio di tenerezze, per parlarsi e per ascoltarsi.
Altrettanto importante è però nell'educazione di un bambino insegnare a stare bene con se stesso, sognare, al limite annoiarsi, gestire la propria solitudine.
Ma, in conclusione, è importante anche che i genitori non rinuncino completamente a ciò che è vitale per se stessi dedicandosi, oltre ai figli, anche ai propri interessi, magari delegandosi, a turno, il compito di occuparsi del resto.
Sarebbe importante che la società aiutasse di più i genitori a conciliare meglio la vita professionale con quella familiare; nel frattempo, occorre imparare da soli a gestire il tempo sociale e quello familiare.
Bibliografia.
Lyliane Nemet-Pier,“"Mio figlio mi divora", Roma Edizioni Ma.Gi. 2006.